Dalle rovine, Luciano Funetta, tunué 2015





Contrariamente a quanto faccio di solito, ho letto questo libro senza prendere appunti, senza sottolineare frasi, senza mettere segni alle pagine più significative. Ero troppo preso dalla mia stessa circospezione. Già alle prime righe percepivo una realtà cupa e vischiosa, in cui sono entrato prima a tentoni, allungando giusto una mano, e poi alla fine ho deciso di fidarmi e ho attraversato con tutto il corpo quella membrana narrativa. Fino a esserne succhiato dentro.
Sapevo che avrei trovato un mondo a me totalmente sconosciuto, letterariamente sconosciuto, per questo ho proseguito. Luci che emanano un calore artificiale, aria sporca e consumata. Quel che resta del mondo sembra riflettersi sulle pareti di una teca, dove serpenti dal morso micidiale stanno acciambellati. Chissà a cosa pensano, i serpenti. Meccanismi primordiali dalle raffinatissime funzioni cerebrali. Non m’è mai importato niente dei serpenti. Né ripulsa né fascinazione. Ma sbagliavo tantissimo.È così bello quel mondo fatto di sibili e fruscii, di luci calde e soffuse, di movimenti lenti, di spire che si contraggono e si rilassano su corpi nudi da far godere. Adesso quindi dei serpenti mi importa, o quanto meno me n’è importato per tutte le 184 pagine del sorprendente romanzo di Luciano Funetta. Come sempre quando ci sentiamo coinvolti fino all’ossessione da qualcosa di cui, fino a pochi istanti prima, ignoravamo l’esistenza. Ad esempio dell’uomo o della donna di cui ci siamo appena innamorati, ignari del potere che gli stiamo consegnando. Ma questa è un’altra storia. 
La storia che racconta “Dalle rovine” è una faccenda di ossessioni e sesso e vite che si intrecciano, ma non mi interessa qui parlare della trama, perché la forza del romanzo sta nell’abisso in cui l’autore spinge noi lettori; sta nella sua abilità di costruire un mondo che esiste solo nei risvolti ombrosi dei nostri pensieri più segreti e che, per codardia o moralismo (come suona consunta e inutile questa parola un tempo così roboante...) noi non abbiamo mai esplorato né tanto meno abitato.
Per questo esiste la letteratura. Per questa sua capacità di risvegliare desideri e manie (dove sta il confine?) che nemmeno pensavamo di avere e che invece giacevano, pericolosamente inerti e acciambellati, nel fondo di una teca silenziosa. A questo serve la letteratura, a risvegliare l’inconoscibile, a istillarci il dubbio di essere ben diversi da come ci sforziamo di apparire; ad affratellarci a personaggi cupi e sinistri che, in verità, ci somigliano molto di più delle rassicuranti e innocue comparse che tutti i giorni ci rimandano la nostra immagine di rassicuranti e innocue comparse. 
Già mi manchi, Rivera.