Don De Lillo, Body Art, Einaudi 2008







Interno giorno di una mattina chiara e luminosa, è appena iniziato il week end e finalmente ha smesso di piovere. Rey e Lauren stanno facendo colazione e voi vi sentite come quando non trovate posto al cinema e siete costretti a seguire il film dalla prima fila. Dettagli di gesti e oggetti sparati vicinissimi agli occhi, così sgranati che fate difficoltà a ricostruire il tutto dalla frammentazione di singole parti. Non in questo caso, però, perché non siamo alle prese con un film ma con un libro e lo scrittore è uno bravo. Lo fa apposta a mettere così in primo piano il tosta pane o mani che scuotono il cartone del succo d’arancia, il frullo dei passeri sul beccatoio dietro la finestra e, naturalmente, quei pezzetti di discorso, frasi smozzicate e dal senso apparentemente nascosto, che mariti e mogli si scambiano aprendo sportelli, prendendo cose, accendendo e spegnendo fornelli. Ray e Lauren parlano con un lessico familiare dal quale siamo esclusi ma che seguiamo con crescente senso di morbosità. Il lettore è un voyeur, quando lo scrittore decide di farlo sentire tale. Ray legge il giornale, Lauren spegne e riaccende la radio. Parlano di questi rumori che sentono nella casa. Forse procioni o orsetti lavatori che si infilano nelle intercapedini. A un certo punto Ray dice qualcosa a proposito del terrore di un’altra giornata normale e Lauren rimane folgorata dalla visione di una ghiandaia azzurra appollaiata sul beccatoio. Poi Ray cerca le chiavi della macchina, vuole farsi un giro, allontanarsi dalla quiete di quella grande casa di legno immersa nella campagna. Diciannove pagine perfette, fitte di dettagli, sul saluto al mondo di un uomo.
Scopriremo dall’articolo di un giornale uscito qualche giorno dopo, che Ray è andato a New York, nell’appartamento della sua prima moglie, si è seduto sulla poltrona e si è sparato una revolverata. Sapremo anche che Ray era un famoso regista di cinema di origine spagnola, osannato dalla critica per un paio di film usciti alla fine degli anni settanta e poi dimenticato. C’è scritto anche che Lauren Hartke, la sua terza moglie, è una performer. Lauren adesso deve sopravvivere al dolore devastante del lutto e alla grande casa vuota, piena di rumori sinistri. E sarà proprio da quei rumori, che Ray tendeva sempre a minimizzare, che una sera emerge uno strano, piccolo uomo, un po’ bambino e un po’ adulto, quasi incapace di parlare, ma in grado di imitare alla perfezione la voce di Rey e riportare fedelmente frammenti di conversazione avvenuti in passato fra le pareti della casa…
Un romanzo sui fantasmi, sulla follia o forse sui meccanismi oscuri e misteriosi che guidano l’artista verso l’atto della creazione. In fondo quello che fa Don De Lillo in questo breve ma indimenticabile libro, è tracciare gli altrimenti invisibili percorsi che portano un artista a costruire la sua opera. Lauren metterà in scena una performance in cui il lettore ritroverà tutti gli elementi del racconto, a cominciare da Mr Tuttle, il piccolo uomo misterioso, che forse è un malato di mente scappato da un vicino ospedale psichiatrico, forse è una creatura che vive dentro realtà sovrapposte, o forse è l’abbozzo, l’imperfetto groviglio iniziale, da cui, sempre, l’artista comincia il suo percorso creativo. De Lillo sembra dirci che alla radice del lavoro di ogni artista, ci sia la trasformazione della sofferenza, l’elaborazione del dolore. 
“Tutto è lento e bianco e esangue e tutto accade intorno al verbo sembrare. (…) Poi la sensazione passa. Tornano il rumore e la velocità e le sagome sfocate e tu scivoli di nuovo dentro la tua vita, senti quel peso doloroso nel petto.”
Uscito dopo il monumentale “Underworld”, che ha consacrato De Lillo fra gli scrittori più grandi del mondo, questo breve romanzo di cento pagine ne conferma tutto lo straordinario talento. 
Imperdibile.