La femmina nuda, Elena Stancanelli, La nave di Teseo, 2016








A distanza di cinque anni dalla pubblicazione di Un uomo giusto, Elena Stancanelli torna con un romanzo che, del precedente, più che la continuazione ne è l’epilogo.

Là si narrava dell’incontro fra Anna e Davide, di quanto quell’uomo fosse speciale “antico e roccioso” e di come i due protagonisti hanno finito per scegliersi. Qui, invece, assistiamo alla devastante distruzione di quell’amore. Quello che c’è stato in mezzo, Elena Stancanelli non ce lo racconta. Di questa storia conosceremo solo la fase iniziale e la fase terminale. 
Con La femmina nuda, Stancanelli ci racconta i suoi dolorosissimi “giorni dell’abbandono”, quando si è disperati e persino la nostra stessa intelligenza finisce per rivoltarsi contro di noi. 
“Adesso so che niente ti tiene davvero al riparo dell’idiozia, tantomeno quello che credi di essere, l’armamentario che hai messo insieme. L’intelligenza, l’esperienza, i libri. Niente.”

Il romanzo è una lunga lettera che Anna scrive alla sua amica Valentina per raccontare, senza alcuna pietà verso se stessa, il suo anno di dolore e tutte le abiezioni che ha commesso per gelosia e rabbia. La sua confessione è talmente lucida e minuziosa che spesso le pagine sembrano scritte col rigore inflessibile di un saggio psicologico. “Più ero pazza e più la gente intorno a me mi riconosceva e si sentiva rassicurata. Ero la donna tradita. Una posizione che non dovevo difendere o spiegare. Stavo dove le persone non faticano a immaginare una donna. Ero una donna per cui le altre donne provano, o almeno mostrano, solidarietà. E gli uomini quel sentimento misto di fastidio e desiderio.”

Ma ci sono anche pagine in cui emerge l’angoscia più irrazionale, quella specie di ottundimento amplificato dall’alcol, dagli psicofarmaci, dall’inappetenza. Elena Stancanelli è bravissima a raccontarci questi abissi, ma lo fa senza mai perdere di vista una vena di disperata ironia.
“Tu credi di ragionare e invece ti attorcigli. Ogni due minuti ripensi la stessa cosa, o fai lo stesso gesto. Come un pesce rosso. Per ore, giorni, mesi. Sempre lì, come un derviscio demente.”
Ma cos’è che pone fine a questo delirio? Quale l’appiglio, il meccanismo, la magia insperata grazie alla quale Anna si libera di questa follia?
L’incontro col nemico. Ritrovarsi di fronte a Cane, la donna innominata con cui Davide ha deciso di iniziare una nuova relazione.
Questa è sicuramente la parte più dinamica del libro, quella in cui la protagonista esce dalla tana del suo dolore e si finge “normale”, inventandosi quasi un’altra identità per poter interagire con Cane, di cui diventa quasi amica, tanto che finiranno perfino per uscire insieme.
La scoperta di quanto questa temuta rivale sia insipiente e stupida fa scattare in Anna un rigurgito di rabbia e dignità, è come se tutto, nel suo corpo, si riattivasse e la riportasse verso la vita, oltre che a scagliarsi – in un impeto d’ira liberatrice – contro Cane.
È il corpo, sembra dirci Elena Stancanelli, la chiave di tutto, è a lui che dobbiamo dare ascolto.
“Il corpo scarta. Si ammala, ti molla in mezzo alla strada, ti stordisce. Ma a volte, senza che tu te ne accorga, ti porta in salvo, lontanissimo.”
Un romanzo spietato e sincero, un racconto sulla solitudine e la disperazione che, però, non va assolutamente letto come una sorta di “manuale di sopravvivenza alle pene d’amore.” 
Questa è letteratura, dunque non necessariamente un’esperienza consolatoria, ma semmai disturbante e potente come un inaspettato pugno sullo stomaco.