Il matematico indiano, David Leavitt, Mondadori 2008








Srinivasa Ramanujan è un semplice impiegato indiano con la passione per la matematica. Nel 1913 il giovane scrive una lettera al grande matematico G. H. Hardy, sottoponendogli alcuni dei suoi studi da perfetto autodidatta. Hardy ne intuisce immediatamente il genio e lo invita in Inghilterra, nell’università dove insegna, il Trinity. Far arrivare l’indiano non è facile, ancora meno facile sarà superare i pregiudizi di una Inghilterra condizionata dall’arroganza del colonialismo. Lo stesso Ramanujan, una volta al Trinity, avrà difficoltà ad accettare lo stile di vita inglese, la difficoltà a reperire cibo vegetariano, la durezza del clima. E infatti finirà per ammalarsi. Tuttavia, nel corso dei pochi anni trascorsi in Inghilterra, prima di tornare in India acclamato come un eroe e morirvi pochi mesi più tardi, Ramanujan, insieme a Hardy, farà delle scoperte di grande importanza nel campo della matematica pura. La bravura di Leavitt è quella di farci sentire come la vita dell’algido professor Hardy (omosessuale non praticante, secondo una definizione del suo collega e amico Littlewood) cambia con la presenza di Ramanujam. Ma sono cambiamenti tutti interiori e forzatamente tenuti sotto controllo dalla razionalità. Non ci sono guizzi, follie d’amore, non c’è nessun contatto, al di là di quello professionale, fra il professore e il suo allievo indiano, eppure la passione c’è, esiste e si esplica, ma in un modo che a noi appare antico, lontano e, forse proprio per questo, estremamente affascinante. Affascinante è anche il modo in cui Leavitt riesce a descriverci il mondo chiuso e aristocratico delle gloriose università inglesi, ne vediamo gli interni, ne cogliamo gli arredi e gli odori. Scopriamo che Bertrand Russel, ad esempio, aveva un alito mefistofelico, che Wittgenstein scappò a gambe levate quando cercarono di affiliarlo alla società segreta degli Apostoli di Cambridge e che lo scrittore D. H. Lawrence aveva in odio l’aria decadente e snob di certi professori. E poi la prima guerra mondiale e le devastazioni che porta, anche dentro il microcosmo dell’università. Seguiamo l’impegno pacifista di Bertand Russel, che gli costerà la prigione, e il travaglio dello stesso Hardy fra accettare di andare in guerra per mantenere il suo ruolo di professore o seguire le sue inclinazioni pacifiste. 
Sono lontani i tempi di “Ballo di famiglia”, i racconti che fecero meritare a David Leavitt l’appellativo di scrittore minimalista, definizione che lui non ha mai molto amato.
In effetti negli anni ha saputo regalarci romanzi dal respiro ampio e complesso che di minimalismo hanno ben poco. Con “Il matematico indiano”, Leavitt è approdato definitivamente ad uno stile romanzesco classico, autorevole e solidissimo. 
Un gran bel romanzo, da leggere come si leggerebbe un classico.