Conversazione con Gilberto Severini

"Come ci si prepara alle pagine future, se ci saranno? Esponendosi alla bellezza, così come ci si espone al sole per l’abbronzatura."

Cosa fa uno scrittore quando non scrive? Come usa il tempo sospeso della non-scrittura per accogliere le parole e le idee a venire? A suggerirmi queste domande è stato l’ultimo romanzo di Gilberto Severini, Backstage, uscito nel 2013 per  Playground. Severini costruisce la propria narrazione attorno all’idea di un libro che non verrà mai scritto, così – giunto all’ultima pagina – il lettore scopre di avere letto un romanzo su un romanzo che non c’è, la cui essenza è costituita da tutto ciò che solitamente non si trova in un testo finito: le ipotesi, le suggestioni, le digressioni che un autore fa con se stesso prima e durante la scrittura e che poi – come frammenti di gesso in sovrappiù da un calco appena realizzato – vengono rimossi dall’artista. Ma in questo caso, al contrario, la narrazione è costituita proprio da quelli che Pier Vittorio Tondelli chiamava Frammenti dell’autore inattivo, quando rifletteva – a sua volta – sul risvolto della scrittura. Ed è esattamente da questa idea di Tondelli, amico e grande estimatore di Gilberto Severini, che prende le mosse questa conversazione.
Scrive Tondelli: “È proprio la risposta che ogni scrittore dà ai suoi momenti di inattività che mi interessa, e di certo assai di più del fatto di sapere quante ore al giorno il tale scriva, o se il tal altro si leghi alla sedia dello scrittoio per lavorare.” Tuttavia, specifica ancora Tondelli, uno scrittore è sempre al lavoro e “nemmeno per un istante al giorno, si dimentica di quello che potrebbe essere il suo nuovo libro.”
La prima domanda è dunque questa: Come gestisce, Gilberto Severini, i suoi momenti di non-scrittura e come, tali momenti, possono diventare occasioni per prepararsi alle pagine future? 

Il testo a cui si riferisce è del 1987. Tondelli aveva 32 anni. Fra le righe si avvertono gli slanci e la vulnerabilità della prima giovinezza. Il riposo dello scrittore,  dopo un libro appena pubblicato,  gli sembra simile all’appagamento dopo il primo amplesso di due innamorati. I problemi cominciano con l’esaurirsi di quella breve euforia. Concluse le Memorie di Adriano Marguerite Yourcenar  annotava nei suoi taccuini: affondo nella disperazione di uno scrittore che non scrive. Pier Vittorio era uno scrittore giovane e di successo. La Yourcenar, aveva appena compiuto un’opera considerata concordemente uno straordinario avvenimento letterario. Il mio caso è quello di uno scrittore non più giovane da tempo che non ha mai prodotto né successi da classifica né straordinari avvenimenti letterari. Questo non vuol dire che non senta il disagio di non scrivere nei periodi di inattività, ma penso  spesso ad una frase di  Beckett copiata in una agendina da ragazzo: bisogna scegliere fra le cose che non vale la pena di dire e quelle che la valgono anche meno. Allora che faccio? Seguo i miei orari. I giornali. Le passeggiate. La posta. Le serate con gli amici. Il cinema nelle ore più tranquille della domenica. Qualche concerto.  Qualche viaggio. Ci sono libri nuovi da leggere e quelli da rileggere. Come ci si prepara alle pagine future, se ci saranno? Esponendosi alla bellezza, così come ci si espone al sole per l’abbronzatura. Il nuovo progetto, se arriva, va sottoposto ad esami molto severi. Il tempo dei dubbi è molto più lungo di quello della stesura del testo.

In Backstage lei parla del tarlo della malinconia al lavoro, che poi è ciò che – più prosaicamente – Tondelli definiva pigrizia: “L’inattività porta alla solitudine, e la solitudine all’isolamento, e l’isolamento al solipsismo, e tutto ciò a quella particolare e fredda follia, né isterica né malinconica, che è la malattia tipica dell’inattività: la pigrizia.” Come si risolve un simile stato d’animo?

Il tarlo della malinconia, di cui scrivo in Backstage, riguarda l‘età che avanza, l’ipotesi di dover chiudere la propria bottega di piccolo artigianato per il timore di non essere più capaci di confezionare prodotti dignitosi. Ma non vorrei eludere il tema della pigrizia anche rischiando di ripetermi. Conosco un solo modo per vincerla. Prendere impegni con se stessi e con gli  altri e rispettarli. Praticare la terapia delle abitudini, insopportabili da ragazzi, ma utili negli anni in cui servono antidoti all’inerzia. La malinconia è parente prossima della depressione. Stanze semibuie. Televisore  acceso e non guardato. Segreterie telefoniche per non essere disturbati. Tutto quello che possediamo è il tempo. Poco o molto. E va usato. Se si aspetta il momento giusto,  quando ci si sveglia  pieni d’energia e senza preoccupazioni, si rischia di non uscire mai di casa. Diceva un mio amico inglese: per i lamenti si sta cinque minuti chiusi in bagno poi non se ne parla più per il resto della giornata.

Lei scrive: “I libri di narrativa veri sono quelli che riescono ad entrare in qualche stanza ingombra di mobili in disuso, come quella in cui mi rifugiavo d’estate, e aprire armadi, frugare nei cassetti, scovare dolori rimossi, pulsioni segrete, rivelando quella parte di noi a cui ogni tanto si attribuiscono sedi e nomi diversi: l’invisibile sorgente di tanta parte del nostro destino.”
Lo scrittore dunque, per dirla con Proust, deve saper attraversare la propria penombra: è questa in sintesi, la ragione per cui si scrivono libri?

Ci sono più idee di scrittura in circolazione. La mia prevede il tentativo di raggiungere una conoscenza non superficiale di se stessi. I personaggi  di una storia devono essere credibili. Dove trovare i materiali per costruirli se non in noi? La ragione per cui si scrivono i libri? Le rispondo con un aneddoto sulla cui autenticità non giuro, ma che spiega molte cose sul mistero della scrittura. Ad un famoso editorialista dell’inizio del secolo scorso un amico chiede come si risolverà la situazione politica. La risposta è: non lo so, non ho ancora scritto l’articolo.

Ancora su questo. Nel suo ultimo libro lei cita Céline: “Chi prende una nave desidera svagarsi, mentre io sono giù alle macchine e lavoro…”
Questo vuol dire che la resistenza a cominciare un nuovo progetto letterario può essere data dalla difficoltà che lo scrittore ha di scendere al fondo di se stesso?

In parte è così. C’è anche  timore di cominciare un lavoro che si dovrà interrompere perché dopo un po’ di pagine non  convince. Mi è capitato più volte di cestinare  progetti avviati. Invece il testo che si è deciso di portare a termine, comanderà per molti giorni sulla propria vita. Diventerà una sorta di quotidiana ossessione. Aveva ragione Tondelli. Uno scrittore è sempre al lavoro. Per fare soltanto due  esempi: Flaubert si alzava di notte per cambiare un aggettivo.  Simenon aveva deciso col suo medico che poteva sopportare la tensione dell’attività creativa  non più di undici giorni anche se scriveva  soltanto la mattina e per poche ore.

Lei passa per un autore essenzialmente autobiografico, eppure in tutta la sua opera quello che racconta non è mai autoreferenziale ma, al contrario, qualcosa che parla a tutti. C’è, a questo proposito, una sua frase che mi pare emblematica: “Se si vuole evitare di ridurre la propria sincerità a un gemito narcisistico bisogna accettare la fatica di lavorare con cura alla sua messa in scena.”
Trova che oggi, in letteratura, ci siano molti gemiti narcisistici?

Ho utilizzato frammenti minimi della mia biografia  lavorando su  ricordi di persone conosciute trasformate in personaggi molto diversi dai modelli. Così come l’io dei miei libri è un personaggio. I dolori e le gioie dei giorni memorabili della vita spesso sono fondamentali occasioni di conoscenza per alimentare un racconto, ma non il racconto. È una questione estetica che non riguarda solo la scrittura. Non mi capitano molti libri di gemiti. Ho una certa fortuna nell’evitarli e un pomeriggio di qualche decennio  fa  Joyce Lussu mi ha convinto che non c’è nessun dovere di terminare i libri noiosi.

Sul mestiere di scrivere. Quanto la tecnica deve imporsi sulla spontaneità della scrittura? Antonio Tabucchi afferma: “La letteratura è un’erba selvatica, e un’erba selvatica non la puoi coltivare in serra. (…) Naturalmente tu puoi aiutarla a crescere, la accompagni, ci metti uno stecco accanto perché ci si arrampichi sopra, ecco, gli fai da supporto. Ma non è che puoi dire: io a questo tipo di erba gli faccio fare questo tipo di fiore, perché poi te ne fa un altro.” È d’accordo?

Credo sia vero, anche se preparare il terreno è fondamentale. Dicevo prima: cercare di esporsi alla bellezza. Aggiungerei: cercare di vivere nella consapevolezza del mondo che si abita e di come cambia velocemente. Sperando  che quando si va sulla pagina, convinti di un’idea di un personaggio di un tema, la scrittura conceda i suoi regali. Si crede di controllare quello che si sta scrivendo e su cui si è a lungo riflettuto, ma a lavoro finito si scopre che le parti più riuscite sono quelle  non progettate, suggerite, generate dal testo durante la sua stesura. I regali. Forse l’erba selvatica è questa.

Sembra quasi che lei veda nella letteratura una sorta di valore salvifico per chi non ha il dono della fede, quando scrive: “Non può essere santo. Sarà poeta. Troverà nelle parole la consolazione del vivere e del morire.” È così?   
Quella frase, in Backstage, si riferiva a Franco Scataglini, un  grande poeta di Ancona che certamente trovò  il senso della sua esistenza nella capacità di esprimersi con la sua opera. Io non sono santo e neppure poeta, i pochi versi che ho scritto sono giochi, canzonette, ma  un giorno ho trovato per caso un’affermazione di Boris Pasternak  che ha messo ordine in certe mie vaghe intuizioni: l’arte, anche se tragica, è sempre il racconto della felicità di esistere.

(Questa intervista è stata precedentemente pubblica su Orlando Esplorazioni)