Lettera a Dina, Grazia Verasani, Giunti 2016



Ho cercato spesso di capire quali siano gli inafferrabili elementi che ci permettono di distinguere l’amore dall’amicizia, ma non ci sono ancora riuscito.
Grazia Verasani, col suo romanzo, esplora proprio questo misterioso interregno senza, come è giusto che sia, fornire alcuna risposta risolutiva, perché non è a questo che serve la letteratura.
C’è un momento di particolare “fertilità affettiva” nella nostra storia personale, di solito gli anni della prima adolescenza, durante i quali siamo eccezionalmente ricettivi nel riconoscere le anime a noi affini. Affini anche nel senso antinomico, capaci, cioè, di stimolarci nel portare alla luce aspetti ancora sconosciuti di noi stessi, magari il nostro lato più “maledetto”.
Sono momenti bellissimi, generalmente dolorosi e indimenticabili.
Anni in cui sperimentiamo la vita con un furore sentimentale che poi, nell’età adulta, andrà fatalmente a stemperarsi. Forse è per questo che ogni tanto proviamo nostalgia per quelle tempeste emotive, per i subbugli del cuore, i tradimenti e le riconciliazioni, i pianti, le risate, per quelle persone che ci hanno donato tali scosse e turbamenti.
Dina è una così. Un incontro alieno, la creatura di un altro mondo, ricca, sfrontata, fascista, che finisce per collidere con la vita di una ragazza (l’io narrante del libro) ben più semplice, proletaria e comunista. Non è quello che le due giovani hanno in comune, ma le loro differenze, il tentativo disperato di volersi bene “nonostante tutto”, a costituire la materia narrativa del romanzo.
Lettera a Dina parla di nostalgia, di quel nodo in gola che si forma sempre quando pensiamo a quegli anni lì, a persone così; ma ci pensiamo per caso, quando siamo più fragili, per un amore che va male, ad esempio, o per la nostra vita che forse non sta seguendo la direzione che avremmo voluto. Allora basta riascoltare una vecchia canzone per ricordarci quanto ci mancano certe persone. Che siano vive o morte non ha importanza, comunque non ci sono più, e con loro una parte di noi.
A questo, alla fine, serve la letteratura. A parlare con i morti, i dissolti, i mai dimenticati, gli andati. A perlustrare i vuoti, i calchi dei corpi sulle lenzuola, lo spazio vuoto fra una riga e l’altra di una lunga, dolorosa lettera d’amore.
Grazia Verasani lo sa e ha scritto a tutti noi, a ciò che siamo stati, alla musica che ascoltavamo, alle idee che circolavano quando pensavamo di cambiare il mondo. Agli amici e agli amori che sono passati, ma che possono tornare. Basta solo la canzone e il libro giusto.





La cattiva reputazione, Francesca Bonafini, Avagliano 2016




Ci sono delle storie che appena ci entri dentro senti che si intonano perfettamente al tuo sentire, è come se ti venisse voglia di seguire i personaggi nel loro viaggio, anche se è solo provincia italiana, città che già conosci e posti dove si suona.
Ma il viaggio conta fino a un certo punto, è con chi parti che fa la differenza.
Appena Francesca Bonafini attacca a raccontare ecco che tu, lettore, sei subito dentro quella vecchia Citroen, insieme a Nina, alla Pillo e a tutta l’altra gente che chilometro dopo chilometro vanno a raccattare. Ragazze squinternate, un poco anarchiche, insofferenti ai moralismi di facciata, però anche capaci di ragionare fino e avvezze alle buone letture. Parecchio groupies, un po’ meno viaggiatrici del dharma, si innamorano di una band e di due dei musicisti, allora via andare, concerto dopo concerto, città dopo città. Solo che né Nina né la Pillo – che per il tenebroso pianista Pierluca ha mandato a monte il matrimonio col mite e prevedibile Nuccio, scatenando le chiacchiere del paesello – nonostante tutto questo parlare di sesso e nerchia, batteranno chiodo.
Ma allora qual è il senso di tutto questo viaggiare? Vivere, se vi par poco, sfidare e sorprendersi, perché l’amore è solo un pretesto romanzesco per macinar chilometri e filosofeggiare.
La gioia sta “nella fossa in cui si cade quando si inciampa nell’amore, ed è un pertugio nel quale si sta volentieri anche a struggersi e a soffrire e per capirci il perché si necessita tornar sui discorsi del sentirsi vivi e pulsare.” Capito, adesso? “La cattiva reputazione” è un romanzo di lieti struggimenti  e un lucidissimo buonsenso che somiglia parecchio alla saggezza di chi ha capito due o tre cose fondamentali. “Non so proprio non so cosa si possa chieder di più alla vita che abbracci e parole saporose, ma proprio non lo so davvero davvero, ma cosa corre a fare la gente, cosa mai c’è di altro, cosa mai c’è di meglio che parole e carne.”
Francesca Bonafini ha scritto un romanzo che pare una jam session, però una di quelle dove suona gente parecchio brava, che non fa calare mai il ritmo fino alla fine. Dalle sue pagine viene fuori un sound che mentre leggi ti ritrovi a tamburellare con le dita sul bracciolo della poltrona, come se in sottofondo ci fosse la tua play-list preferita...
Siccome pure a me, come diceva quel Giovane americano, quando ho appena finito di leggere un libro che mi è piaciuto mi vien voglia di telefonare all’autore, mi sono messo in contatto con Francesca per continuare a parlare del suo romanzo e perché avevo voglia di farle qualche domanda...



Come hai trovato la voce della protagonista? Hai valutato altre opzioni o l’idea di usare la prima persona è venuta spontaneamente?

Le voci narranti dei miei racconti arrivano sempre da una suggestione fonica. Penso al testo come a una sorta di partitura musicale, un tessuto sonoro in cui il ritmo è l'elemento portante, lo scheletro su cui si regge tutto. Di qui la predilezione, in genere, per la prima persona, che mi permette di lavorare in modo più agile sull'aspetto fonico e mi dà la sensazione di poter plasmare una lingua  più riconoscibile, particolare, inventiva. Se scrivo in terza persona la mia lingua tende infatti a prendere una piega più classica, mentre in prima persona è più idiosincratica, più d'invenzione. E le lingue d'invenzione sono quelle che maggiormente mi appassionano, anche come lettrice.

Sei riuscita molto bene a calibrare alto e basso: gergo colloquiale e una evidente raffinatezza linguistica. È stato difficile ottenere questo registro, peraltro senza mai far sentire al lettore il minimo sentore di artificiosità?
Scrivere mi costa sempre molta fatica, qualsiasi sia il registro. Non ho facilità di parola, per me la parola è una conquista difficoltosa, lenta, sudata. Ma credo di avere orecchio, ed è il senso del ritmo  a guidarmi. Nina, la voce narrante de “La cattiva reputazione”, mescola il lessico la sintassi e il ritmo dell'oralità con la lingua delle opere letterarie da lei amate, perché per Nina non vi è una separazione netta tra il parlato quotidiano e le parole dei libri amati, ruminati, metabolizzati, ma compenetrazione. Cosicché la sua voce è al contempo ipercontemporanea, informale, talvolta triviale, ma anche abbondantemente punteggiata da stilemi danteschi, per esempio, o ariosteschi, o propri della lingua del melodramma, i quali vengono rimescolati, modificati, adattati a suo “piacimento linguistico”, come lei stessa dice. Le parole della letteratura sono gustose, e Nina ne sente il sapore, ci gioca, se le mastica con godimento. Credo che questo accada a chiunque abbia un rapporto autentico con la lettura: le parole dei testi nutrono la quotidianità, tornano a essere carne, finiscono per abitare nella viva voce di un lettore innamorato della lingua.
È inevitabile ritrovare nel tuo romanzo un’eco tondelliana. Quanto devi a questo autore e quanto, a tuo avviso, di Tondelli sopravvive nella letteratura italiana di questo inizio terzo millennio?
Penso sempre alla mia scrittura come a una scrittura in dialogo con i libri che ho amato, e ci sono  due testi di Tondelli che mi sono particolarmente cari: “Altri libertini”, per quel suo meraviglioso sound del linguaggio parlato (come direbbe lo stesso Tondelli citando Arbasino), e soprattutto “Camere separate”, che amo per la sua vocazione sapienziale e per i temi, che riconosco vicini, affini alla mia sensibilità. “Camere separate” è un testo che periodicamente rileggo, perché sento che mi fa bene, che fa bene alla mia vita. Io credo che alla fine i libri servano a questo, a darci strumenti per vivere in modo più consapevole, e soprattutto a renderci “meglio capaci di uno sguardo di tenerezza”, come diceva sempre il mio amatissimo Fabrizio Frasnedi. Guardare con tenerezza a noi stessi e agli altri, al nostro comune annaspare.                                    
Non so dirti quanto della lezione di Tondelli sopravviva oggi. Forse sopravvive in modo sotterraneo, poco percepibile. Di fatto, mi sembra che la maggior parte delle scritture contemporanee vada in un'altra direzione.

Io vi amo, ragazze di Rohmer




Fragili e dolci creature di Rohmer! Francesine dalle mani nervose, torte sotto il peso di conversazioni metafisiche. Lievi come ogni singola goccia di quei temporali che ti fanno correre in casa. Case che dietro i vetri ci sono giardini dai colori delle quattro stagioni, case che – ne sono sicuro – odorano di dolci. Mi piacete quando, emancipate parigine, preparate le valigie per partire. Ne abitate anche più d’una (come me!) di quelle case vive, per il gusto di credere di non essere mai arrivate da nessuna parte. Giù vestiti a caso (e allora come fate a esser sempre composte ed eleganti?) e ogni campanello che suonate è una storia in cui ci fate entrare. E di gente ne incontrate e mi piace come vi infilate oppure uscite da discorsi da piscina o più complessi movimenti del cuore. Ma, in verità, è Eric Rohmer che fa film che ti entrano nella vita come un micro-evento. Come quando perdi l’autobus, come quando fai l’amore, come quando la stagione cambia e tiri fuori i pantaloni bianchi. I suoi film mi hanno insegnato a scrivere, a riconoscere in ogni atto minimo del reale un evento drammatizzabile. 
A stupirmi per un nulla, mi hanno insegnato. A scoprire che qui, davanti ai miei occhi, volendo, è tutto pieno di impercettibili effetti speciali.

Conversazione con Gilberto Severini

"Come ci si prepara alle pagine future, se ci saranno? Esponendosi alla bellezza, così come ci si espone al sole per l’abbronzatura."

Cosa fa uno scrittore quando non scrive? Come usa il tempo sospeso della non-scrittura per accogliere le parole e le idee a venire? A suggerirmi queste domande è stato l’ultimo romanzo di Gilberto Severini, Backstage, uscito nel 2013 per  Playground. Severini costruisce la propria narrazione attorno all’idea di un libro che non verrà mai scritto, così – giunto all’ultima pagina – il lettore scopre di avere letto un romanzo su un romanzo che non c’è, la cui essenza è costituita da tutto ciò che solitamente non si trova in un testo finito: le ipotesi, le suggestioni, le digressioni che un autore fa con se stesso prima e durante la scrittura e che poi – come frammenti di gesso in sovrappiù da un calco appena realizzato – vengono rimossi dall’artista. Ma in questo caso, al contrario, la narrazione è costituita proprio da quelli che Pier Vittorio Tondelli chiamava Frammenti dell’autore inattivo, quando rifletteva – a sua volta – sul risvolto della scrittura. Ed è esattamente da questa idea di Tondelli, amico e grande estimatore di Gilberto Severini, che prende le mosse questa conversazione.
Scrive Tondelli: “È proprio la risposta che ogni scrittore dà ai suoi momenti di inattività che mi interessa, e di certo assai di più del fatto di sapere quante ore al giorno il tale scriva, o se il tal altro si leghi alla sedia dello scrittoio per lavorare.” Tuttavia, specifica ancora Tondelli, uno scrittore è sempre al lavoro e “nemmeno per un istante al giorno, si dimentica di quello che potrebbe essere il suo nuovo libro.”
La prima domanda è dunque questa: Come gestisce, Gilberto Severini, i suoi momenti di non-scrittura e come, tali momenti, possono diventare occasioni per prepararsi alle pagine future? 

Il testo a cui si riferisce è del 1987. Tondelli aveva 32 anni. Fra le righe si avvertono gli slanci e la vulnerabilità della prima giovinezza. Il riposo dello scrittore,  dopo un libro appena pubblicato,  gli sembra simile all’appagamento dopo il primo amplesso di due innamorati. I problemi cominciano con l’esaurirsi di quella breve euforia. Concluse le Memorie di Adriano Marguerite Yourcenar  annotava nei suoi taccuini: affondo nella disperazione di uno scrittore che non scrive. Pier Vittorio era uno scrittore giovane e di successo. La Yourcenar, aveva appena compiuto un’opera considerata concordemente uno straordinario avvenimento letterario. Il mio caso è quello di uno scrittore non più giovane da tempo che non ha mai prodotto né successi da classifica né straordinari avvenimenti letterari. Questo non vuol dire che non senta il disagio di non scrivere nei periodi di inattività, ma penso  spesso ad una frase di  Beckett copiata in una agendina da ragazzo: bisogna scegliere fra le cose che non vale la pena di dire e quelle che la valgono anche meno. Allora che faccio? Seguo i miei orari. I giornali. Le passeggiate. La posta. Le serate con gli amici. Il cinema nelle ore più tranquille della domenica. Qualche concerto.  Qualche viaggio. Ci sono libri nuovi da leggere e quelli da rileggere. Come ci si prepara alle pagine future, se ci saranno? Esponendosi alla bellezza, così come ci si espone al sole per l’abbronzatura. Il nuovo progetto, se arriva, va sottoposto ad esami molto severi. Il tempo dei dubbi è molto più lungo di quello della stesura del testo.

In Backstage lei parla del tarlo della malinconia al lavoro, che poi è ciò che – più prosaicamente – Tondelli definiva pigrizia: “L’inattività porta alla solitudine, e la solitudine all’isolamento, e l’isolamento al solipsismo, e tutto ciò a quella particolare e fredda follia, né isterica né malinconica, che è la malattia tipica dell’inattività: la pigrizia.” Come si risolve un simile stato d’animo?

Il tarlo della malinconia, di cui scrivo in Backstage, riguarda l‘età che avanza, l’ipotesi di dover chiudere la propria bottega di piccolo artigianato per il timore di non essere più capaci di confezionare prodotti dignitosi. Ma non vorrei eludere il tema della pigrizia anche rischiando di ripetermi. Conosco un solo modo per vincerla. Prendere impegni con se stessi e con gli  altri e rispettarli. Praticare la terapia delle abitudini, insopportabili da ragazzi, ma utili negli anni in cui servono antidoti all’inerzia. La malinconia è parente prossima della depressione. Stanze semibuie. Televisore  acceso e non guardato. Segreterie telefoniche per non essere disturbati. Tutto quello che possediamo è il tempo. Poco o molto. E va usato. Se si aspetta il momento giusto,  quando ci si sveglia  pieni d’energia e senza preoccupazioni, si rischia di non uscire mai di casa. Diceva un mio amico inglese: per i lamenti si sta cinque minuti chiusi in bagno poi non se ne parla più per il resto della giornata.

Lei scrive: “I libri di narrativa veri sono quelli che riescono ad entrare in qualche stanza ingombra di mobili in disuso, come quella in cui mi rifugiavo d’estate, e aprire armadi, frugare nei cassetti, scovare dolori rimossi, pulsioni segrete, rivelando quella parte di noi a cui ogni tanto si attribuiscono sedi e nomi diversi: l’invisibile sorgente di tanta parte del nostro destino.”
Lo scrittore dunque, per dirla con Proust, deve saper attraversare la propria penombra: è questa in sintesi, la ragione per cui si scrivono libri?

Ci sono più idee di scrittura in circolazione. La mia prevede il tentativo di raggiungere una conoscenza non superficiale di se stessi. I personaggi  di una storia devono essere credibili. Dove trovare i materiali per costruirli se non in noi? La ragione per cui si scrivono i libri? Le rispondo con un aneddoto sulla cui autenticità non giuro, ma che spiega molte cose sul mistero della scrittura. Ad un famoso editorialista dell’inizio del secolo scorso un amico chiede come si risolverà la situazione politica. La risposta è: non lo so, non ho ancora scritto l’articolo.

Ancora su questo. Nel suo ultimo libro lei cita Céline: “Chi prende una nave desidera svagarsi, mentre io sono giù alle macchine e lavoro…”
Questo vuol dire che la resistenza a cominciare un nuovo progetto letterario può essere data dalla difficoltà che lo scrittore ha di scendere al fondo di se stesso?

In parte è così. C’è anche  timore di cominciare un lavoro che si dovrà interrompere perché dopo un po’ di pagine non  convince. Mi è capitato più volte di cestinare  progetti avviati. Invece il testo che si è deciso di portare a termine, comanderà per molti giorni sulla propria vita. Diventerà una sorta di quotidiana ossessione. Aveva ragione Tondelli. Uno scrittore è sempre al lavoro. Per fare soltanto due  esempi: Flaubert si alzava di notte per cambiare un aggettivo.  Simenon aveva deciso col suo medico che poteva sopportare la tensione dell’attività creativa  non più di undici giorni anche se scriveva  soltanto la mattina e per poche ore.

Lei passa per un autore essenzialmente autobiografico, eppure in tutta la sua opera quello che racconta non è mai autoreferenziale ma, al contrario, qualcosa che parla a tutti. C’è, a questo proposito, una sua frase che mi pare emblematica: “Se si vuole evitare di ridurre la propria sincerità a un gemito narcisistico bisogna accettare la fatica di lavorare con cura alla sua messa in scena.”
Trova che oggi, in letteratura, ci siano molti gemiti narcisistici?

Ho utilizzato frammenti minimi della mia biografia  lavorando su  ricordi di persone conosciute trasformate in personaggi molto diversi dai modelli. Così come l’io dei miei libri è un personaggio. I dolori e le gioie dei giorni memorabili della vita spesso sono fondamentali occasioni di conoscenza per alimentare un racconto, ma non il racconto. È una questione estetica che non riguarda solo la scrittura. Non mi capitano molti libri di gemiti. Ho una certa fortuna nell’evitarli e un pomeriggio di qualche decennio  fa  Joyce Lussu mi ha convinto che non c’è nessun dovere di terminare i libri noiosi.

Sul mestiere di scrivere. Quanto la tecnica deve imporsi sulla spontaneità della scrittura? Antonio Tabucchi afferma: “La letteratura è un’erba selvatica, e un’erba selvatica non la puoi coltivare in serra. (…) Naturalmente tu puoi aiutarla a crescere, la accompagni, ci metti uno stecco accanto perché ci si arrampichi sopra, ecco, gli fai da supporto. Ma non è che puoi dire: io a questo tipo di erba gli faccio fare questo tipo di fiore, perché poi te ne fa un altro.” È d’accordo?

Credo sia vero, anche se preparare il terreno è fondamentale. Dicevo prima: cercare di esporsi alla bellezza. Aggiungerei: cercare di vivere nella consapevolezza del mondo che si abita e di come cambia velocemente. Sperando  che quando si va sulla pagina, convinti di un’idea di un personaggio di un tema, la scrittura conceda i suoi regali. Si crede di controllare quello che si sta scrivendo e su cui si è a lungo riflettuto, ma a lavoro finito si scopre che le parti più riuscite sono quelle  non progettate, suggerite, generate dal testo durante la sua stesura. I regali. Forse l’erba selvatica è questa.

Sembra quasi che lei veda nella letteratura una sorta di valore salvifico per chi non ha il dono della fede, quando scrive: “Non può essere santo. Sarà poeta. Troverà nelle parole la consolazione del vivere e del morire.” È così?   
Quella frase, in Backstage, si riferiva a Franco Scataglini, un  grande poeta di Ancona che certamente trovò  il senso della sua esistenza nella capacità di esprimersi con la sua opera. Io non sono santo e neppure poeta, i pochi versi che ho scritto sono giochi, canzonette, ma  un giorno ho trovato per caso un’affermazione di Boris Pasternak  che ha messo ordine in certe mie vaghe intuizioni: l’arte, anche se tragica, è sempre il racconto della felicità di esistere.

(Questa intervista è stata precedentemente pubblica su Orlando Esplorazioni)

La femmina nuda, Elena Stancanelli, La nave di Teseo, 2016








A distanza di cinque anni dalla pubblicazione di Un uomo giusto, Elena Stancanelli torna con un romanzo che, del precedente, più che la continuazione ne è l’epilogo.

Là si narrava dell’incontro fra Anna e Davide, di quanto quell’uomo fosse speciale “antico e roccioso” e di come i due protagonisti hanno finito per scegliersi. Qui, invece, assistiamo alla devastante distruzione di quell’amore. Quello che c’è stato in mezzo, Elena Stancanelli non ce lo racconta. Di questa storia conosceremo solo la fase iniziale e la fase terminale. 
Con La femmina nuda, Stancanelli ci racconta i suoi dolorosissimi “giorni dell’abbandono”, quando si è disperati e persino la nostra stessa intelligenza finisce per rivoltarsi contro di noi. 
“Adesso so che niente ti tiene davvero al riparo dell’idiozia, tantomeno quello che credi di essere, l’armamentario che hai messo insieme. L’intelligenza, l’esperienza, i libri. Niente.”

Il romanzo è una lunga lettera che Anna scrive alla sua amica Valentina per raccontare, senza alcuna pietà verso se stessa, il suo anno di dolore e tutte le abiezioni che ha commesso per gelosia e rabbia. La sua confessione è talmente lucida e minuziosa che spesso le pagine sembrano scritte col rigore inflessibile di un saggio psicologico. “Più ero pazza e più la gente intorno a me mi riconosceva e si sentiva rassicurata. Ero la donna tradita. Una posizione che non dovevo difendere o spiegare. Stavo dove le persone non faticano a immaginare una donna. Ero una donna per cui le altre donne provano, o almeno mostrano, solidarietà. E gli uomini quel sentimento misto di fastidio e desiderio.”

Ma ci sono anche pagine in cui emerge l’angoscia più irrazionale, quella specie di ottundimento amplificato dall’alcol, dagli psicofarmaci, dall’inappetenza. Elena Stancanelli è bravissima a raccontarci questi abissi, ma lo fa senza mai perdere di vista una vena di disperata ironia.
“Tu credi di ragionare e invece ti attorcigli. Ogni due minuti ripensi la stessa cosa, o fai lo stesso gesto. Come un pesce rosso. Per ore, giorni, mesi. Sempre lì, come un derviscio demente.”
Ma cos’è che pone fine a questo delirio? Quale l’appiglio, il meccanismo, la magia insperata grazie alla quale Anna si libera di questa follia?
L’incontro col nemico. Ritrovarsi di fronte a Cane, la donna innominata con cui Davide ha deciso di iniziare una nuova relazione.
Questa è sicuramente la parte più dinamica del libro, quella in cui la protagonista esce dalla tana del suo dolore e si finge “normale”, inventandosi quasi un’altra identità per poter interagire con Cane, di cui diventa quasi amica, tanto che finiranno perfino per uscire insieme.
La scoperta di quanto questa temuta rivale sia insipiente e stupida fa scattare in Anna un rigurgito di rabbia e dignità, è come se tutto, nel suo corpo, si riattivasse e la riportasse verso la vita, oltre che a scagliarsi – in un impeto d’ira liberatrice – contro Cane.
È il corpo, sembra dirci Elena Stancanelli, la chiave di tutto, è a lui che dobbiamo dare ascolto.
“Il corpo scarta. Si ammala, ti molla in mezzo alla strada, ti stordisce. Ma a volte, senza che tu te ne accorga, ti porta in salvo, lontanissimo.”
Un romanzo spietato e sincero, un racconto sulla solitudine e la disperazione che, però, non va assolutamente letto come una sorta di “manuale di sopravvivenza alle pene d’amore.” 
Questa è letteratura, dunque non necessariamente un’esperienza consolatoria, ma semmai disturbante e potente come un inaspettato pugno sullo stomaco.