Ci
sono delle storie che appena ci entri dentro senti che si intonano
perfettamente al tuo sentire, è come se ti venisse voglia di seguire i
personaggi nel loro viaggio, anche se è solo provincia italiana, città che già
conosci e posti dove si suona.
Ma
il viaggio conta fino a un certo punto, è con chi parti che fa la differenza.
Appena
Francesca Bonafini attacca a raccontare ecco che tu, lettore, sei subito dentro
quella vecchia Citroen, insieme a Nina, alla Pillo e a tutta l’altra gente che
chilometro dopo chilometro vanno a raccattare. Ragazze squinternate, un poco
anarchiche, insofferenti ai moralismi di facciata, però anche capaci di ragionare
fino e avvezze alle buone letture. Parecchio groupies, un po’ meno viaggiatrici
del dharma, si innamorano di una band e di due dei musicisti, allora via
andare, concerto dopo concerto, città dopo città. Solo che né Nina né la Pillo –
che per il tenebroso pianista Pierluca ha mandato a monte il matrimonio col
mite e prevedibile Nuccio, scatenando le chiacchiere del paesello – nonostante
tutto questo parlare di sesso e nerchia, batteranno chiodo.
Ma
allora qual è il senso di tutto questo viaggiare? Vivere, se vi par poco,
sfidare e sorprendersi, perché l’amore è solo un pretesto romanzesco per macinar
chilometri e filosofeggiare.
La
gioia sta “nella fossa in cui si cade quando si inciampa nell’amore, ed è un
pertugio nel quale si sta volentieri anche a struggersi e a soffrire e per
capirci il perché si necessita tornar sui discorsi del sentirsi vivi e pulsare.”
Capito, adesso? “La cattiva reputazione” è un romanzo di lieti struggimenti e un lucidissimo buonsenso che somiglia
parecchio alla saggezza di chi ha capito due o tre cose fondamentali. “Non so
proprio non so cosa si possa chieder di più alla vita che abbracci e parole
saporose, ma proprio non lo so davvero davvero, ma cosa corre a fare la gente,
cosa mai c’è di altro, cosa mai c’è di meglio che parole e carne.”
Francesca
Bonafini ha scritto un romanzo che pare una jam session, però una di quelle
dove suona gente parecchio brava, che non fa calare mai il ritmo fino alla fine.
Dalle sue pagine viene fuori un sound che mentre leggi ti ritrovi a
tamburellare con le dita sul bracciolo della poltrona, come se in sottofondo ci
fosse la tua play-list preferita...
Siccome pure a me, come
diceva quel Giovane americano, quando ho appena finito di leggere un libro che
mi è piaciuto mi vien voglia di telefonare all’autore, mi sono messo in
contatto con Francesca per continuare a parlare del suo romanzo e perché avevo
voglia di farle qualche domanda...
Come hai trovato la voce della protagonista? Hai valutato altre opzioni
o l’idea di usare la prima persona è venuta spontaneamente?
Le voci narranti dei miei racconti arrivano sempre da una suggestione
fonica. Penso al testo come a una sorta di partitura musicale, un tessuto
sonoro in cui il ritmo è l'elemento portante, lo scheletro su cui si regge
tutto. Di qui la predilezione, in genere, per la prima persona, che mi permette
di lavorare in modo più agile sull'aspetto fonico e mi dà la sensazione di
poter plasmare una lingua più
riconoscibile, particolare, inventiva. Se scrivo in terza persona la mia lingua
tende infatti a prendere una piega più classica, mentre in prima persona è più
idiosincratica, più d'invenzione. E le lingue d'invenzione sono quelle che
maggiormente mi appassionano, anche come lettrice.
Sei riuscita molto bene a calibrare alto e basso: gergo colloquiale e
una evidente raffinatezza linguistica. È stato difficile ottenere questo
registro, peraltro senza mai far sentire al lettore il minimo sentore di
artificiosità?
Scrivere mi costa sempre molta fatica, qualsiasi sia il registro. Non ho
facilità di parola, per me la parola è una conquista difficoltosa, lenta,
sudata. Ma credo di avere orecchio, ed è il senso del ritmo a guidarmi. Nina, la voce narrante de “La
cattiva reputazione”, mescola il lessico
la sintassi e il ritmo dell'oralità con la lingua delle opere letterarie da lei
amate, perché per Nina non vi è una separazione netta tra il parlato quotidiano
e le parole dei libri amati, ruminati, metabolizzati, ma compenetrazione.
Cosicché la sua voce è al contempo ipercontemporanea, informale, talvolta
triviale, ma anche abbondantemente punteggiata da
stilemi danteschi, per esempio, o ariosteschi, o propri della lingua del
melodramma, i quali vengono rimescolati, modificati, adattati a suo “piacimento
linguistico”, come lei stessa dice. Le parole della letteratura sono gustose, e
Nina ne sente il sapore, ci gioca, se le mastica con godimento. Credo che
questo accada a chiunque abbia un rapporto autentico con la lettura: le parole
dei testi nutrono la quotidianità, tornano a essere carne, finiscono per
abitare nella viva voce di un lettore innamorato della lingua.
È inevitabile ritrovare nel tuo romanzo un’eco tondelliana. Quanto devi
a questo autore e quanto, a tuo avviso, di Tondelli sopravvive nella
letteratura italiana di questo inizio terzo millennio?
Penso sempre alla mia scrittura come a una scrittura in dialogo con i
libri che ho amato, e ci sono due testi
di Tondelli che mi sono particolarmente cari: “Altri libertini”, per quel suo
meraviglioso sound del linguaggio parlato (come direbbe lo stesso
Tondelli citando Arbasino), e soprattutto “Camere separate”, che amo per la sua
vocazione sapienziale e per i temi, che riconosco vicini, affini alla mia
sensibilità. “Camere separate” è un testo che periodicamente rileggo, perché
sento che mi fa bene, che fa bene alla mia vita. Io credo che alla fine i libri
servano a questo, a darci strumenti per vivere in modo più consapevole, e
soprattutto a renderci “meglio capaci di uno sguardo di tenerezza”, come diceva
sempre il mio amatissimo Fabrizio Frasnedi. Guardare con tenerezza a noi stessi
e agli altri, al nostro comune annaspare.
Non so dirti quanto della lezione di Tondelli sopravviva oggi. Forse sopravvive in modo sotterraneo, poco percepibile. Di fatto, mi sembra che la maggior parte delle scritture contemporanee vada in un'altra direzione.
Non so dirti quanto della lezione di Tondelli sopravviva oggi. Forse sopravvive in modo sotterraneo, poco percepibile. Di fatto, mi sembra che la maggior parte delle scritture contemporanee vada in un'altra direzione.